Recensione di Gianni Galassi apparsa su " Circolo fotografico "

Era il 1975 e la mostra fu un fiasco senza precedenti. Tuttavia “New Topographics: Photographs of a Man-Altered Landscape”, ospitata dalla George Eastman House a Rochester (USA), oltre a lanciare nel firmamento della fotografia internazionale artisti del calibro di Stephen Shore e Bernd & Hilla Becher avrebbe sancito la nascita di un approccio visivo all’ambiente urbano in cui le tecniche compositive del paesaggismo, la narratività dell’indagine sociologica e la sospensione atemporale della pittura metafisica si sarebbero fuse insieme fino a diventare un genere a sé stante. Un genere che ancora oggi, a distanza di trentasei anni, viene praticato dai fotografi di tutto il mondo.

A parte Shore che, con le sue opere a colori si incamminava -non so quanto intenzionalmente- verso la scena della pop-art, gli altri Topographics lavoravano tutti in bianco e nero. L’immagine monocromatica si prestava molto meglio del colore ad una rappresentazione programmaticamente enfatica di manufatti tutto sommato banali. L’alternanza del pieno e del vuoto poteva così essere colta in tutta la sua disarmante plasticità. A farsi carico dell’indagine “topografica” nel nostro paese è il milanese Gabriele Basilico, celebrato autore di opere come “The Interrupted City”, “Sezioni del paesaggio italiano” e “Basilico/Beirut”. Non so se Basilico -che tra l’altro ha un background di architetto, non a caso- si consideri un erede dei “New Topographics”, ma sono pronto a scommettere che Pierpaolo Montagna, nel concepire il suo portfolio “Periferie”, avesse l’opera di Basilico ben chiara in mente.

Montagna non è un ragazzo (descrive i suoi vent’anni come “lontani”), e questo gli ha dato modo di cogliere una trasformazione del tessuto urbano delle periferie milanesi, che egli oggi vede condannate ad essere “sempre più periferiche e sempre meno vivibili e vissute.” Diversamente da Basilico, Montagna non cerca a tutti i costi di fotografare una scena vuota. Al contrario, il suo obiettivo è disponibilissimo a cogliere la presenza di esseri umani: quando ci sono. Ecco il punto. La sporadica presenza di passanti in alcune delle sue immagini carica di un’ulteriore senso di vuoto quelle che, di tale presenza, sono invece del tutto prive. Tuttavia non c’è mistica del degrado, nelle fotografie di Montagna, ma piuttosto la presa d’atto di uno sforzo dell’architettura e dell’ingegneria (edifici ambiziosi e tutt’altro che banali, mezzi di trasporto moderni e scintillanti) che da solo non basta a conferire a questi sconfinati insediamenti l’ineffabile dote della vivibilità.

Delle tredici fotografie che compongono il portfolio, soltanto due sono state scattate utilizzando una focale superiore allo standard (50mm equivalente). Per tutte le altre Montagna si è servito di un grandangolare, secondo i dettami più classici della “presa d’atto topografica”. E a parte una sola -e dunque criticabile- eccezione (Barona S. Ambrogio 2), si sviluppano tutte orizzontalmente. Le riprese hanno impegnato l’autore per un semestre, ma ciò non compromette l’omogeneità del portfolio che presenta una apprezzabilissima continuità di contrasto e densità. Continuità resa possibile anche dalla scelta di privilegiare, a prescindere dalla stagione, una luce autunnale -e qui è evidente che i Becher hanno fatto scuola-. Fanno eccezione “Corsico Tessera”, che presenta un cielo tersissimo, e “Corvetto”, scattata sotto un chiaroscuro di nuvole in transito. Tuttavia l’accorto lavoro di postproduzione portato a termine da Montagna fa sì che queste non suonino come note stonate. Si osservi che l’autore, quando serve, lascia che i cieli si estrinsechino in campiture del tutto prive di materia: in altre parole i bianchi sono intenzionalmente “clippati”, in barba a una delle regole fondamentali del “digitally correct”. Cosa che non deve scandalizzare, se non nel caso di “Stadera”, dove le aree “bruciate” si estendono alle facciate dei palazzi pregiudicando irrimediabilmente la qualità complessiva dell’immagine. Se una fotografia è sovraesposta, andrebbe scartata senza esitare.

Un commento a parte lo merita il trattamento delle linee cadenti. La “scuola Basilico” prevede che queste, grazie al banco ottico, ritrovino il giusto parallelismo. E questo non in ossequio ad un astratto stilema calligrafico, bensì per aiutare l’osservatore a confrontare la rappresentazione fotografica del mondo con la realtà di cui ha quotidianamente esperienza. Ma oggi, nel dorato mondo della postproduzione digitale, disponiamo di formidabili strumenti di correzione prospettica che surrogano egregiamente l’impiego dei voluminosi apparecchi a decentramento e Montagna, che utilizza Photoshop CS4, dimostra di sapersene servire, sebbene con un’approssimazione che non mi sento di perdonare. Allora perché non sottoporre tutte le immagini allo stesso trattamento? “Corvetto” e “Gratosoglio 15″ se ne sarebbero sicuramente giovate.

Concludo con una nota personale. Ho lasciato Milano più di trent’anni fa, ed è abbastanza sconcertante che toponimi come Barona, Corsico o Gratosoglio evochino come allora un malanno sociale ed urbanistico che, diversamente che nei paesi ai quali l’Italia pretende di assomigliare, sembra inguaribile. La fotografia può dare una (piccola) mano a cambiare le cose. E ci sono tante altre periferie che aspettano che Montagna ci posi gli occhi sopra.